IL NOSTRO MIGLIOR FUTURO? APPROVED!

Un articolo su OGGI.it parla della prima Social Street italiana, in un luogo sempre “stato avanti” per antonomasia…Bologna. Più precisamente in Via Fondazza, da un’idea che inizialmente coinvolgeva solo alcuni dei suoi residenti, è stata in poco tempo creata una vera e propria piccola comunità dove ciascuno, mettendo a disposizione le proprie competenze ed abilità dà una mano agli altri e l’unico mezzo di baratto abolito è proprio la moneta.

Parola d’ordine: CONDIVISIONE

Quale miglior scelta per contrastare un sistema che non funziona?

 

http://www.oggi.it/focus/cronaca/2013/11/20/bologna-benvenuti-in-via-fondazza-la-prima-social-street-italiana-scopri-cose

 

via_fondazza_bologna_social_street_645

 

(alcuni membri della Community di Via Fondazza)

 

BREVE PARENTESI MOLTO IMPORTANTE…

Sto dall’altra parte del mondo ma non sto abbastanza fuori dal mondo per non sapere quello che sta accadendo aldila’ delle frontiere…percio’ mi unisco al coro di moltissimi dicendo…
 
F R E E   T I B E T  !!!!
 
 
Queste informazioni sulla situazione in Tibet vengono dalla  International Campaign for Tibet:

"C’è da essere estremamente preoccupati circa le notizie riportate dall’interno del Tibet, dove la situazione peggiora continuamente.
Queste notizie, da fonti attendibili, testimoniano di arresti di massa, perquisizioni e ricerche casa-per-casa e di percosse.
Le cause alla radice di questa situazione devono essere ben chiare: risentimento e amarezza a lungo covate che vengono a galla mentre il governo cinese e i media non fanno nulla per calmare la situazione.
Il Dalai Lama è un uomo di pace che è pienamente dedito alla non-violenza e occorre che sia da noi sostenutoin questa ora di bisogno.
Si può dare una mano contattando il vostro rappresentante politico, spiegando l’urgente situazione in Tibet e chiedendo di appellarsi alla Cina per  fare ciò che segue:
 Permettere l’accesso in tutte le aree tibetane a osservatori internazionali e giornalisti indipendenti
 Astenersi dall’uso della violenza di fronte a proteste pacifiche dei Tibetani
 Astenersi dall’uso della tortura  e/ di altri trattamenti degradanti
 Cominciare un sostanziale e significativo dialogo con il Dalai Lama e i suoi inviati, per portare cambiamenti
           durevoli e pace in Tibet.
La Cina ha l’onore di ospitare le Olimpiadi quest’anno. Tuttavia possiamo appellarci allo IOC (Comitato olimpico internazionale) perché ponga l’urgenza di ritirare il Tibet dal percorso della fiaccola olimpica al Comitato Organizzatore, per questioni umanitarie. Il passaggio della fiaccola sarà visto come una provocazione alla popolazione tibetana e potrebbe perciò portare ad ulteriori disordini, tensioni e quindi più violenze e arresti.
Possiamo inoltre fare appello a politici e pubbliche personalità di astenersi dal partecipare alla cerimoia di apertura dei giochi quale espressione di preoccupazione per le violazioni dei diritti umani in Tibet; in particolare perché la cerimonia di apertura servirà alla Cina come un palcoscenico, per presentarsi all’opinione pubblica mondiale come paese ospitante con una buona immagine."
Continui aggiornamenti si possono trovare su www.savetibet.org, oppure www.italiatibet.org.


 

IL PUNTO SUGLI ABORIGENI AUSTRALIANI

In Australia ci sono circa 500 diversi popoli aborigeni, ciascuno con la propria identita’ linguistica e territoriale, e sono generalmente organizzati in clan distinti. La loro terra e’ stata

invasa a partire dalla fine del diciottesimo secolo, con conseguenze disastrose.

La terra e’ un elemento cruciale per gli Aborigeni, e intorno ad essa ruota tutta la loro esistenza materiale e spirituale. Prima della colonizzazione, la maggior parte degli Aborigeni abitava

in comunita’ semi-stanziali lungo le coste, sostentandosi di agricoltura e dell’allevamento di pesci e animali. Gli Aborigeni che popolavano invece il bush o il deserto dell’entroterra

vivevano di caccia e di raccolta. Bruciavano le sterpaglie per favorire la crescita delle piante preferite dalle loro prede ed erano molto esperti nella ricerca dell’acqua. Oggi, piu’ della meta’ risiede nelle citta’, spesso in condizioni terribili, nelle periferie piu’ degradate. Molti lavorano come braccianti in quelle stesse fattorie che hanno occupato le loro terre ancestrali, ma altri, soprattutto nella parte settentrionale del continente, rimangono radicati nelle loro terre e vivono ancora di caccia e raccolta. Gli Aborigeni sono stati derubati delle loro terre sin dai primi

anni della colonizzazione britannica. Il principio giuridico che regolava la questione indigena nella legislazione inglese e, pertanto, anche in quella australiana, era quello della “Terra Nullius”: un principio che definiva la terra australiana prima dell’arrivo dei Britannici come una terra vuota, una terra di nessuno che, pertanto, poteva essere legittimamente occupata dai coloni. Il principio e’ rimasto legalmente in vigore fino al 1992 e oggi, gli Aborigeni stanno ancora aspettando la restituzione della maggior parte delle loro terre. Il furto e la distruzione dei territori ancestrali hanno avuto su di loro un impatto sociale e fisico devastante. Le prime

invasioni portarono con se’ epidemie che sterminarono migliaia di Aborigeni, mentre molti altri furono massacrati per mano dei coloni. Nell’arco di un solo secolo dall’arrivo dei colonizzatori, la popolazione aborigena si ridusse da un numero presunto di almeno un milione di

persone a soli 60.000 individui. Nel corso del ventesimo secolo, allo sterminio diretto si

e’ sostituita una politica brutale, volta a togliere i bambini aborigeni ai loro genitori, per affidarli alle famiglie dei bianchi o ai colleghi dei missionari, con l’obiettivo di sradicare ogni traccia della loro cultura e della loro lingua. La “generazione rubata” (stolen generation), cosi’ come gli Aborigeni stessi la definiscono, rimane una ferita aperta nel cuore di tutto il popolo aborigeno.

Gli Aborigeni sono ancora oggi oggetto di razzismo e violenze e molti di loro vivono in condizioni disumane. Di conseguenza soffrono un tasso di suicidi e mortalita’ infantile molto superiori

a quelli del resto della popolazione e hanno un’aspettativa di vita molto bassa. Inoltre il numero degli Aborigeni in carcere e’ altissimo. Nonostante l’abolizione del principio razzista della “terra

nullius” avvenuta nel 1992, il governo australiano continua a fare di tutto per ostacolare le rivendicazioni territoriali degli Aborigeni. Tuttavia, alcune tribu’ come quella dei Martu

dell’Australia occidentale, sono finalmente riuscite a farsi riconoscere i diritti di proprieta’ sulle loro terre. Ci sono attualmente progetti che aiutano gli Aborigeni a lasciare le citta’ per ritornare nelle loro terre. E cause che portano gli Aborigeni nei tribunali ed in Parlamento

per vedersi riconoscere i titoli di proprieta’ delle loro terre in virtu’ del “Native Title” (Titolo Nativo). Inoltre sostegni per la campagna condotta dai Mirrar dei territori del Nord contro

l’apertura di una miniera di uranio sulla loro terra sacra: la campagna ha avuto successo e la compagnia mineraria ha per ora rinunciato al suo progetto.

“Quando allontanate un Aborigeno Australiano dalla sua terra,

togliete lo spirito che gli da’ la vita”

LA LUNGA STRADA VERSO LA LIBERTA’ DELL’UOMO

BURMA UPDATE:
I MONACI CHIAMANO, NON LASCIAMOLI SOLI!!
 
Gli straordinari avvenimenti di questi giorni in Birmania non sono un fuoco di paglia destinato a spegnersi, neanche di fronte ai possibili interventi repressivi della giunta militare birmana e non potranno essere liquidati tanto facilmente neanche dalla tradizionale indifferenza dei governi e dai potenti interessi geopolitici ed economici di cui il popolo birmano e la democrazia sono stati sino ad ora le grandi vittime.
Le manifestazioni pacifiche di questi coraggiosi uomini scalzi, senza armi con solo le loro ciotole e le bandiere come potenti armi simboliche, seguono le prime proteste altrettanto pacifiche dei birmani a seguito dell’ultima ignominia del potere militare. Il drastico aumento dei prezzi della benzina, del gas e dei generi di prima necessità a partire dal riso sta gettando ancor più sul lastrico il popolo di questo paese ma di rimando ha colpito anche i monaci, che vivono di offerte. Quando non si può più neanche comprare il riso, ma solo l’acqua di cottura di scarto, vuol dire che non si può neanche fare il gesto quotidiano e naturale di dar da mangiare ai monaci. Un paese ricchissimo come la Birmania costretto a mangiare l’acqua di scarto del riso, costretto al silenzio dalla paura della repressione quotidiana, dalle torture nelle carceri, dagli stupri, dal lavoro forzato, da un esercito che è il piu grande in quell’area del mondo è oggi un paese cresciuto politicamente e pronto a tutto. Le proteste di questi giorni infatti, a differenza del famoso 8 agosto 1988 non sono per nulla spontanee, ma sono il frutto di un difficilissimo e rischioso lavoro sotterraneo, silenzioso, difficile messo in piedi dalle organizzazioni democratiche birmane nel corso di questi ultimi anni. Un lavoro di costruzione della coscienza collettiva, di promozione organizzativa, di costruzione di reti interne, di dialogo tra le varie organizzazioni che rappresentano le nazionalità etniche del paese, spesso in conflitto tra di loro in passato e che hanno sempre chiesto uno stato democratico ma federale.
E oggi che finalmente si parla di questa dittatura violenta, che dal 1962 ha potuto uccidere impunemente migliaia di poveri abitanti dei villaggi, violentare centinaia di donne per sfregio e per ritorsione politica, che ha gettato nelle durissime prigioni del paese migliaia di persone che avevano osato parlare, criticare, pensare, scrivere e organizzare l’opposizione politica e sindacale, oggi questa sottile e fragile rete organizzata va alimentata, curata, sostenuta. Ci volevano i monaci buddisti per rompere il velo di silenzio della stampa. Oggi tutti vogliono correre a Rangoon per vedere, scrivere, filmare. Questo sì, potrebbe essere un fuoco di paglia ordito dai media affamati di novità e notizie, un fuoco rischioso per i monaci buddisti, i dimostranti e le organizzazioni democratiche di questo paese. Finché ci sarà la notizia, si riuscirà forse a ridurre il rischio della repressione brutale della giunta e finché si garantirà l’attenzione internazionale si riuscirà forse a evitare il ritorno dell’indifferenza politica, ancora oggi non scalzata del tutto.
In Europa ad esempio, solo Gordon Brown ha preso una posizione decisa e si è impegnato pubblicamente ad affrontare la questione birmana sia a livello Ue che a livello di Consiglio di sicurezza Onu. In Italia una importante mozione approvata dal senato a sostegno della democrazia, per la liberazione dei prigionieri politici e sindacali, non ha visto ancora il nostro governo in azione. La strategia della Farnesina è ferma ad una vecchia e inconsistente tattica del «dialogo costruttivo». Un dialogo a senso unico. Anzi un monologo, visti i fatti di questi ultimi anni, mesi e giorni. Sino ad oggi chi ha tentato questa strada, come il vecchio governo tailandese, l’ha vista fallire immediatamente e ha offerto il fianco solo a un utilizzo strumentale da parte della giunta di questa strategia, si auspica decisa in totale buona fede e senza secondi fini, soprattutto nei rapporti con Cina, Russia e India. La giunta birmana può sedersi a un tavolo di dialogo solo se con l’acqua alla gola. Solo se le sue risorse venissero drasticamente tagliate. Gas, legname, minerali, pietre preziose, prodotti ittici, tessile abbigliamento sono tutti settori che portano enormi proventi alla giunta e ai loro amici e che permettono contemporaneamente il riciclaggio dei proventi della vendita di oppio e metanfetamnine.
Un’azione politica per chiudere i rubinetti dei loro profitti avrebbe un doppio effetto. Il primo economico e il secondo politico. Ma sarebbe anche un messaggio chiaro non solo alla giunta militare e al sistema delle imprese che fino ad oggi, come l’Unocal e la Total-Fina, pur di lavorare in Birmania hanno avallato l’utilizzo del lavoro forzato e le durissime condizioni di sfruttamento dei lavoratori locali. Oggi è tempo di voltare pagina. È tempo di superare, anche in Italia, le solite politiche gattopardesche. I comunicati che rimangono polverosi sui siti delle istituzioni e dei governi. È tempo di decidere azioni politiche incisive.
Oggi di fronte alla evidente capacità organizzativa della dissidenza birmana, di cui i monaci sono una componente importante, i governi devono cambiare passo. Si dovrebbe utilizzare l’assemblea dell’Onu per decidere la convocazione urgente di una riunione del Consiglio di sicurezza per l’approvazione di una risoluzione che costringa la giunta a negoziare con l’Onu, non lasciando però solo nella presa di decisioni il suo rappresentante speciale Ibrahim Gambari. I legittimi rappresentanti del governo in esilio e i parlamentari eletti nelle uniche elezioni democratiche del 1990 dovrebbero avere una diversa udienza nelle sedi diplomatiche.
Finalmente le organizzazioni democratiche rappresentate dalla Ncub (la National coalition of union of Burma), che raccoglie tutte le organizzazioni sindacali, dei monaci buddisti, degli studenti, delle donne etc. il cui segretario generale è il segretario del sindacato birmano Ftub, dovrebbero essere consultate nelle scelte politiche fatte dai governi. Un esempio lampante di quanto questo sia mancato sta nella iniziativa promossa dal ministero degli esteri italiano di finanziare e organizzare un corso di diritto umanitario per funzionari birmani, corso che si dovrebbe tenere in ottobre a Sanremo. Una iniziativa assolutamente inaccettabile e inopportuna, che violerebbe nella sostanza la posizione comune europea, (che vieta l’ingresso in Europa di funzionari della giunta militare) e che per altro come previsto sempre dalla Ue avrebbe dovuto essere concordata proprio con l’Ncub e con il governo in esilio.
Oggi i monaci buddisti ci invitano a voltare pagina, ad abbandonare l’indifferenza verso un paese che non è vittima di scontri ideologici, come purtroppo sta avvenendo in altre parti del mondo, sempre sotto i riflettori e l’attenzione politica. I tessitori silenziosi di questa straordinaria pagina di coraggio e di pacifismo ci chiedono responsabilità, attenzione e impegno politico di lungo periodo. Ci chiedono di accompagnare il loro cammino con iniziative di solidarietà, di pressione verso i governi dei grandi e verso le istituzioni internazionali, Onu, Ilo, Ue, l’Asem, l’Omc, ma anche verso le imprese. La premio Nobel per la pace Aung San Suu kyi, il governo birmano in esilio, il sindacato birmano clandestino chiedono da anni, inascoltati, l’interruzione dei rapporti economici e commerciali con questo paese. È ora di cambiare passo anche in questo. Le imprese devono fare un passo indietro e i governi devono convincerle, con gli strumenti che hanno.
Il primo appuntamento è nei prossimi giorni. A New York le diplomazie dovranno fare veramente proprie le richieste delle organizzazioni democratiche di questo paese. A partire da un tavolo negoziale tripartito, sotto l’egida dell’Onu, con tempi certi per la transizione democratica. Liberazione degli arrestati, dei prigionieri politici, del Nobel Aung San Suu Kyi e nel frattempo dovrebbero sostenere con risorse, e con la politica la lotta pacifica, democratica e diffusa, dei lavoratori organizzati nell’Ftub, dei monaci, degli studenti e degli uomini e delle donne birmane. Costruire la democrazia è un processo costoso. È ora che i governi, la Ue dopo anni di decisioni inefficaci e pilatesche diano il loro decisivo contributo. 
 
Il video della protesta:
 
Foto gallery:
 
Per ulteriori informazioni ed importanti aggiornamenti:
 
 
Sottoscrivete LA CAMPAGNA BIRMANIA (http://htm.cisl.it/sito/contenuti/BIRMANIA/Birmania.htm)
 
Chiedete alla TOTAL OIL di lasciare la Birmania! (http://www.birmaniademocratica.org/Home.aspx)
 
NON LASCIAMOCI RISUCCHIARE DALL’INDIFFERENZA!!!
 

DON’T FORGET!!!! VERY IMPORTANT!!!! BIRMANIA…

BOYCOTT BURMA!!!!!!!!
Burma Update (from Tourism Concern site) 
Why tourists and tour operators should stay away from Burma…
On Saturday 27th May 2006 the Burmese government extended the house arrest of Aung San Suu Kyi, Burma’s democratically elected leader, despite calls for her release from UN Secretary General Kofi Annan.
Burma has formed the cornerstone of our campaigning work on tourism and human rights for many years. Since the junta declared 1996 ‘Visit Myanmar Year’, we have campaigned for tour operators and individual tourists to stay away from Burma. We were delighted when two major guidebook publishers announced that they would not be producing future editions of their Burma guides and several UK tour operators pulled out of Burma. Tourism Concern is aware that some time has passed since then and as there seems to be a popular misconception that the tide is turning in favour of travel to B
urma so we have decided to reiterate our position.

There are and always have been people, both in Burma and the west who disagree with a tourism boycott. Some now believe that the boycott has not worked, that the strong economic links with India and China mean it has had little effect, and therefore serves no purpose. The aim of the tourism boycott was not to halt Burma’s economy but to ensure that tourism was not directly contributing financially to the military junta. In this respect the boycott has been very successful. Tourist numbers to Burma are still exceedingly low, when compared to its Southeast Asian neighbours, with a large proportion originating from other Asian countries or on a ‘visa run’ from Thailand, staying only a very short time in the country.

Travelling in Burma without contributing to the government is virtually impossible. Moneychangers, many hotels and transport companies are either owned by the government or have to pay them large fees or bribes. The concept of encouraging responsible travel in Burma is an attractive one, with tourists only travelling through small privately run business and buying good from locals. Unfortunately this is a very simplistic and idealistic view of international tourism. It is obvious from witnessing trends in neighbouring Thailand that this is not how the majority of tourists operate. It is not possible to encourage one type of tourist to travel to Burma but ban another inevitable set of travellers.

Any tour operator or guidebook which condones travel to Burma sends a strong message of validation to all. It is unfeasible that thousands of people would travel to Burma without visiting major tourist attractions and thereby donating to the military junta and encouraging forced labour, which anecdotal evidence suggests is still occurring.

By encouraging people to visit Burma tour operators and guide books are taking away a valuable tool currently used to highlight the grave human rights abuses. Obviously increased numbers of tourists to Burma would have some economic trickle down to local people but when compared to the millions in revenue it would earn the government and the proven direct link to human rights abuses we believe it is not a fair trade. In a country with no enemies, where half its annual budget is spent on its military and it is currently displacing thousands of ethnic Karen families near the Thai border, any increase in revenue would not be a positive development for its civilian population. It is very complex and there will be Burmese who do not advocate a boycott but importantly Aung San Suu Kyi, the democratically appointed leader of Burma, does. Currently her message remains that people should not visit at this time and unless we hear otherwise.    

 

   

 

“Lettera da Firenze” di TIZIANO TERZANI (Corriere della Sera, 8 ottobre 2001)

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gia’ grande e tu proponesti di scambiarci delle "Lettere da due mondi diversi": io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma e’ in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. La’ morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione.
Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia", scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui uso’ di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanita’, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualita’.
Pensare quel che pensi e scriverlo e’ un tuo diritto. Il problema e’ pero’ che, grazie alla tua notorieta’, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.
Il nostro di ora e’ un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile e’ appena cominciato, ma e’ ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. E un momento anche di enorme responsabilita’ perche’ certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti piu’ bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecita’ delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere. "Conquistare le passioni mi pare di gran lunga piu’ difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me", scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: "Finche’ l’uomo non si mettera’ di sua volonta’ all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sara’ per lui alcuna salvezza".
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non e’ nella tua rabbia accalorata, ne’ nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela piu’ accettabile, "Liberta’ duratura".
O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo e’ mondo non c’e’ stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sara’ nemmeno questa.
Quel che ci sta succedendo e’ nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. E una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilita’ di nulla, tanto meno all’inevitabilita’ della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre piu’ tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor piu’ determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor piu’ terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguira’ necessariamente una loro ancora piu’ orribile e poi un’altra nostra e cosi’ via.
Perche’ non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari "intelligente", di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.
Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologiche – Stati Uniti in testa – d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanita’ a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilita’. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per se’ un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart). L’autore e’ Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Universita’ di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff e’ che la politica, nella sua espressione piu’ nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici piu’ profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessita’ di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civilta’.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che e’ anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima citta’. La vendetta non e’ degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perche’ col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro e’ servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilita’ della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e cosi’, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.
A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle "Tigri Tamil", votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di "Hamas" che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pieta’ sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perche’ vorrei capire che cosa li rende cosi’ disposti a quell’innaturale atto che e’ il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.
Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio.
Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perche’ io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolvera’ uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali.
Niente nella storia umana e’ semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’e’ raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, e’ il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle e’ uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non e’ l’atto di "una guerra di religione" degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non e’ neppure "un attacco alla liberta’ ed alla democrazia occidentale", come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Universita’ di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse da’ di questa storia una interpretazione completamente diversa. "Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana", scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti, ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo "contraccolpo" al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il "contraccolpo" dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana "a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico".
Cosi’ si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati.
Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, e’ evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’e’, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi "amici", qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa e’ stata la trappola.
L’occasione per uscirne e’ ora.
Perche’ non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perche’ non studiamo davvero, come avremmo potuto gia’ fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia?
Ci eviteremmo cosi’ d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre piu’ disastrosi "contraccolpi" che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta.
Magari salviamo cosi’ anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa e’ stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri.
A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese e’ legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da li’ nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli "orribili" talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si e’ impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan.
E dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessita’ di proteggere la liberta’ e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. E per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie liberta’ che rendono l’America cosi’ particolare.
Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo "codardi", usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, cosi’ come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L’aver diviso il mondo in maniera – mi pare – "talebana", fra "quelli che stanno con noi e quelli contro di noi", crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha gia’ sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.
Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle "cicale" ed agli intellettuali "del dubbio" va in quello stesso senso. Dubitare e’ una funzione essenziale del pensiero; il dubbio e’ il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste e’ come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande.
In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo "ufficiale" della politica e dell’establishment mediatico, c’e’ stata una disperante corsa alla ortodossia. E come se l’America ci mettesse gia’ paura. Capita cosi’ di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan e’ un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici – me ne rendo conto – e’ un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor piu’ l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civilta’ combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.
Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente.
Ma questo ci impone anche grandi responsabilita’ come quella, non facile, di andare dietro alla verita’ e di dedicarci soprattutto "a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia", come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.
Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che e’ complicato. Ma non si puo’ esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunita’ di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.
Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa e’ l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che gia’ studiano l’inglese e magari il giapponese?
Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente e’, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia.
Mi frulla in testa una frase di Toynbee: "Le opere di artisti e letterati hanno vita piu’ lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno piu’ in la’ degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di piu’ di tutti gli altri messi assieme".
Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per "gli altri", per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provo’ una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufrago’ e lui si salvo’ a malapena. Ci provo’ una seconda volta, ma si ammalo’ prima di arrivare e torno’ indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati ("vide il male ed il peccato"), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraverso’ le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn – era il 1219 – perche’ sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perche’, dopo una chiacchierata che probabilmente ando’ avanti nella notte, al mattino il Sultano lascio’ che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati.
Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlo’ di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressivita’ e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.
Ma oggi? Non fermarla puo’ voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: "La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo piu’ umano?". A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere "No".
Ma non possiamo rinunciare alla speranza.
"Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?", chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. "E possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi piu’ capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?" Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori – un atteggiamento piu’ civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.
Giusto in tempo la morte risparmio’ a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale.
Non li risparmio’ invece ad Einstein, che divenne pero’ sempre piu’ convinto della necessita’ del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanita’ un ultimo appello per la sua sopravvivenza:
"Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto".
Per difendersi, Oriana, non c’e’ bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’e’ bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni.
M’e’ sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha gia’ i poteri della preveggenza, "vede" che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.
Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della liberta’ di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocita’ commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?
"Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate", scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse si’.
L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del "nemico" da abbattere e’ il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; e’ l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; e’ il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo pero’ accettare che per altri il "terrorista" possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui e’ piu’ conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci piu’ i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?
Questo non e’ relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, puo’ esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sara’ difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti.
Molto meno convinti pero’ sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio e’ diffuso cosi’ come e’ diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra.
"Dateci qualcosa di piu’ carino del capitalismo", diceva il cartello di un dimostrante in Germania.
"Un mondo giusto non e’ mai nato", c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Gia’. Un mondo "piu’ giusto" e’ forse quel che noi tutti, ora piu’ che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalita’ ed ispirato ad un po’ piu’ di moralita’.
La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perche’ ora tornano comodi, e’ solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalita’ internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese piu’ reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato ne’ il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, ne’ il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilita’ del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sara’ presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i "lavoretti sporchi" di liquidare qua e la’ nel mondo le persone che la Cia stessa mettera’ sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovra’ ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.
A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa citta’ mi fa male e mi intristisce. Tutto e’ cambiato, tutto e’ involgarito. Ma la colpa non e’ dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una citta’ bottegaia, prostituita al turismo! E successo dappertutto. Firenze era bella quando era piu’ piccola e piu’ povera. Ora e’ un obbrobrio, ma non perche’ i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perche’ i filippini si riuniscono il giovedi’ in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione.
E cosi’ perche’ anche Firenze s’e’ "globalizzata", perche’ non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.
Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso e’ scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo piu’.
Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle piu’ divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, li’ maestose ed immobili, simbolo della piu’ grande stabilita’, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo.
La natura e’ una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto piu’ grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono piu’. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passera’ anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace.
Perche’ se quella non e’ dentro di noi non sara’ mai da nessuna parte.